Memorie
Un binario, un vagone, fredde rotaie d'acciaio,
occhi che cercan nel buio.
Una scritta, un cancello, due file,
le urla dietro un fucile.
Forbici tagliano chiome,
un numero al posto di un nome.
Incertezza, inganno, sgomento,
grigia neve portata dal vento.
Il filo, in terra una donna,
un'anima che libera torna.
Le docce, le fosse, i forni, la marcia
perchè non rimanga una traccia.
Lontane memorie di morte,
che il tempo non ha sepolte...

Era la fine di ottobre del 1944 e, con occhi assenti, guardavo fuori dalla piccola finestra senza vetri della mia baracca l’arrivo dell’ultimo treno della settimana.
Guardavo ma non vedevo.
Ero altrove.
Ripensavo all’autunno del 1942 quando ero stata internata nel campo di concentramento di Auschwitz con tutta la mia famiglia.
Mia madre era la donna più bella e forte che io avessi mai visto. Si chiamava Liliana. Dopo due mesi dalla deportazione era caduta a terra priva di sensi stremata dalle privazioni e dalla sofferenza. L’ avevano portata in infermeria. Il giorno dopo avevo scoperto che era morta. Avevo pianto tutte le mie lacrime stretta a Giuliana una donna italiana che avevo conosciuto sul treno e con cui avevo subito stretto amicizia.
Ormai ero sola.
Mio padre, Frank Bunzel, prima che venisse licenziato, era un professore di storia e filosofia. Il miglior professore che la scuola avesse mai avuto, dicevano. Non l’avevo più visto da quella sera fatale. Da quando ci avevano separato. Dal 13 ottobre 1942. E poi c’era Leah. La mia povera e piccola sorellina di soli cinque anni. Era così fragile lei: era stata strappata dalle braccia di mia madre al nostro arrivo e da allora non ne avevamo più avuto notizia, ma ci avevano detto che i bambini venivano spesso usati per orrendi esperimenti dal dottor Mengele.
E poi c’ero io o quello che restava di me: Rachele.
Prima di essere deportata ballavo al teatro Carrè di Amsterdam e, nonostante la mia giovane età, ero tra le ballerine più talentuose e il mio nome era sulla bocca di tutti. Ora, ovviamente, non ero più nessuno. Non ero più una promettente ballerina. No. Ero solo un numero. Ero il numero 2307, 1073, 1193: un numero per ogni campo in cui ero stata deportata. Auschwitz era stato il primo, poi mi avevano spostata a Buchenwald e infine ero arrivata a Bergen-Belsen.
Immersa in quei tristi pensieri, non mi accorsi che la porta della baracca si era aperta. Ad un certo punto sentii un leggero tocco sulla spalla, mi girai lentamente e mi trovai davanti due ragazze.
“ Sei tu Rachele?” mi chiese con voce esitante la ragazza più giovane. Sussultai. Da quando mia madre era morta, nessuno mi aveva più chiamato per nome. Esitante annuì piano. “ Io sono Anne Frank e lei è Margot mia sorella. Ci hanno fatto venire in questo blocco e ci hanno indicato questa baracca.
L’anziana qui fuori ci ha detto che forse tu ci avresti potuto aiutare a capire… perché sei olandese e sei qui da più tempo.”.
“Sì, certo…venite.” dissi tristemente.
Indicai loro dove potevano sistemarsi e gli porsi dei piccoli pezzi di pane nero raffermo che avevo conservato. “ Non è niente lo so, ma è tutto ciò che ho”.
“ Oh va bene così, grazie.” Disse Margot mentre Anne sorrideva con occhi riconoscenti.
“ Da quanto tempo sei qui?” mi chiese Margot, e intanto lo sguardo di Anne si posava su qualcosa che vedeva fuori dalla finestra. Seguendo il suo sguardo sospirai pesantemente capendo cosa stesse vedendo. Mucchi di cadaveri, uccisi dal tifo e dai pidocchi e lasciati ovunque senza che nessuno se ne occupasse. Capii dallo sguardo delle sorelle che tutto quell’orrore per loro era nuovo.
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Un binario, un vagone, fredde rotaie d'acciaio,
occhi che cercan nel buio.
Una scritta, un cancello, due file,
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Incertezza, inganno, sgomento,
grigia neve portata dal vento.
Il filo, in terra una donna,
un'anima che libera torna.
Le docce, le fosse, i forni, la marcia
perchè non rimanga una traccia.
Lontane memorie di morte,
che il tempo non ha sepolte...

Era la fine di ottobre del 1944 e, con occhi assenti, guardavo fuori dalla piccola finestra senza vetri della mia baracca l’arrivo dell’ultimo treno della settimana.
Guardavo ma non vedevo.
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